Ci si può ammalare. Sì. Nel corso della vita può succedere anche questo. Se ne prende atto crescendo, vedendo quello che ci accade intorno, leggendo i giornali, ascoltando le notizie di cronaca o, più facilmente parlando con gli inquilini del palazzo: “…poverino, il signore del terzo piano è malato…così giovane….spiace davvero!” Per fortuna a noi non accade mai, stiamo tutti bene e la nostra famiglia vive serena e felice nel suo quotidiano. Un giorno però capita qualcosa. Qualcosa che fino a quel momento non avevamo considerato. Accade che uno di noi sta poco bene. Non sembra una cosa grave e di sicuro non lo diventerà perché certe cose a noi non succedono. Forti di questa assoluta certezza si continua la vita di sempre, felici, uniti e attenti a quel componente della famiglia che sta poco bene. Il tempo passa e tra le mille altre cose della giornata, ci accorgiamo che quel membro della nostra famiglia non sta semplicemente “poco bene”. E’ qualcosa di più. Non portiamo papà solamente dal dottore, non è più sufficiente e si va direttamente in ospedale. Ci rendiamo conto che si stanno facendo largo nel nostro linguaggio, terminologie che non ci appartenevano fin poco tempo prima. Parole come ascite, paracentesi, albumina… Guardiamo papà e iniziamo a vedere uno sguardo che cambia, un volto che cambia, un corpo che cambia, un odore che cambia, un carattere che cambia. Lo portiamo in ospedale e lo riportiamo a casa. Una, poi due, poi tre volte alla settimana. Qualcosa sta modificando il nostro quotidiano ma è come se ancora non ci fosse davvero consapevolezza di ciò che accade. Si chiama rifiuto. Di colpo pensi che forse le tue certezze assolute non sono poi così assolute e temi improvvisamente che quel signore del terzo piano sia proprio tuo padre. Accade così che la malattia entra nella nostra casa, nella nostra famiglia, nella nostra vita. Trasforma chi ne è colpito ma in maniera trasversale colpisce anche noi. Il tempo passa. Settimane, mesi e la malattia decide per noi. Decide che non si vive più sereni come prima. Decide che non se ne vuole andare facilmente e non basta più nemmeno l’ospedale della nostra città. Bisogna andare a Genova perché a papà serve un trapianto di fegato. Trapianto?? A mio papà?? Ma mio papà non si può ammalare perché è mio papà. E’ nella mia famiglia e nella mia famiglia queste cose non succedono…. Anche questo si chiama rifiuto. Così la famiglia si sdoppia. Papà sta in ospedale al S. Martino di Genova, mamma in una casa famiglia li vicino, noi qui a studiare e lavorare ma li si raggiunge nel fine settimana. Iniziano i viaggi in autostrada, i panini in autogril, i mal di testa, il pieno di benzina, il pedaggio, i soldi che se ne vanno troppo in fretta e sembra non bastino mai, inizia a farsi strada il nervosismo, la rabbia, il pianto, lo sconforto, le incomprensioni, le domande, l’assenza di risposte, l’assenza di certezze, l’attesa e il senso d’impotenza. La malattia che può colpire una persona non resta mai un evento isolato dal resto della famiglia. Chi aiuta me? Chi mi dice come affrontare tutto questo? Chi mi da coraggio per far si che io possa darne poi a mio padre e a mia madre?
Dopo il trapianto mio padre, quel signore del terzo piano, sta bene. La sua vita scorre densa di impegni, emozioni e soddisfazioni personali.
Noi, la sua famiglia, abbiamo dovuto affrontare un percorso trasversale ma non disgiunto dal suo. Le difficoltà sono state infinite, grandi e l’unico supporto siamo stati noi. Noi per noi. Le strutture che seguono questi malati in attesa di una seconda possibilità di vita, dovrebbero sostenere psicologicamente anche le famiglie dei malati stessi. Non si può placare la sete se non si possiede acqua da poter distribuire e questi malati hanno sete di speranza. Non dimentichiamo che l’ attesa è attesa per tutti così come la speranza è speranza per tutti. Nelle giornate trascorse a Genova accanto a papà ho avuto modo di vedere e conoscere altri malati come lui e altre famiglie. I più, come noi, ospedalizzati in una città che non era la loro, gente giunta da ogni parte d’Italia. Si impara un po’ di genovese, si avverte una cadenza nella pronuncia differente dalla propria, si vede il mare e i gabbiani dalla finestra e si sente sempre forte il rumore del vento. Tutto ricorda che si è lontani da casa. Se a questo si aggiunge l’impossibilità di alcune famiglie a restare unite, per i motivi più disparati, la situazione che si viene a creare non aiuta di certo il malato. Ho visto diverse persone abbandonare le forze, rifiutare il cibo, aspettare per ore una telefonata o dire a mio papà “…tu sei fortunato perché i tuoi possono venire qui…” Restare accanto a un malato e poterlo seguire, dargli l’appoggio di cui necessita o semplicemente restare al suo fianco nella lunga attesa è un diritto di tutti i famigliari e tutti dovrebbero essere sostenuti e posti nella condizione di riuscirci al meglio. Aiuterebbe i malati e consentirebbe alle famiglie di vivere questo cammino di sofferenza, dolore e speranza con una nuova forza aggregante, che unisce. Unione senza dubbio vincente nel ritorno alla vita.